Fedeli al duro accordo

non ci cerchiamo più

 

Così i bambini giocano

a non ridere per primi

guardandosi negli occhi

e alcuni sono così bravi

che diventano tristi

per la vita intera

 

(Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke)

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

Piero Calamandrei

Insiste l’amore

Lasciamo piangere la notte:
ci racconti del temporale
e stilli latte lunare
sulle ferite aperte del giorno.

Il cuore della pendola
è metronomo a modulazioni
di rane stanate dalla rugiada.

Insiste l’amore,
molla ostinata di vita,
nei boccioli rigonfi,
nelle palpebre serrate sui sogni,
nel vagare in cerca di un tu.

Voragine mai colma dal nulla,
che s’alza a confine dell’arcobaleno.

Angeli bianchi di neve

I passeri credono briciole
farfalle di gelo:
illusione di vita.

Io ho creduto verità in me
quelle che erano solo parole.

La mia immagine
nello specchio di ghiaccio
è sempre la stessa,
neppure quel sorriso
affannoso d’amore
è mutato.

Angeli bianchi di neve
diventano acqua
nel sole,
pensieri di un attimo
veri
si perdon fra pagine morte:
il giornale di ieri.

Sardegna

Fiocinate di sole
sullo scheletro del geco
sul maialino sgozzato
sul cane rantolante e dimenticato
sul riccio sventrato
sul grido sordo del mare.

Negli occhi neri
lontane superstizioni.

Fra i mirti feriti dal vento
la voce di streghe mai morte
è l’eco di giorni passati
a cercare nemici inventati
un orgoglio perduto
un amore mai posseduto.

Fiocinate di sole
fra le montagne
fino al tramonto:
implacabile cacciatore
il giorno.

Questa luce che muore
nella notte breve
sussulta nei cuori
degli uomini
bassi e neri,
ancorati alla vita
con serti di giunco

When my kids were real little, I used to play a game with them. I’d give each one of them a stick and – one for each one of them. Then I’d say, “You break that.” Of course they could, real easy. Then I’d say, “Tie them sticks in a bundle…

Dedicated to our friends in Hungary, to remind them who they are, with the words of their first poet,

Attila József

(Budapest, 11 apr 1905 – Balatonszárszó, 3 dec 1937)

Li conoscete i numeri?

Son numeri anche gli uomini, una fila
di tanti 1 sul quaderno.
Ma si contan da soli, ed il quaderno
si meraviglia molto, perché ognuno
pensa soltanto a sé, dagli altri vuole
distinguersi, perché senza ragione
a potenza si eleva:
può farlo certo sino all’infinito;
l’uno continua a rimanere uno,
non divide o moltiplica.

Prendete forza,
badate innanzi tutto
alle cose piú semplici,
sommatevi:
perché, moltiplicati enormemente,
possiate in qualche modo avvicinare Dio, che è infinito.

Attila József

Dall’antologia poetica “Con cuore puro”
1972, Edizioni Accademia Trad. Prof. Umberto Albini

 

A számokról

Tanultátok-e a számokat?

Bizony számok az emberek is,
mintha sok 1-es volna az irkában.
Hanem ezek maguk számolódnak és csudálkozik módfölött az irka,
hogy mindegyik csak magára gondol, különb akar lenni a többinél s oktalanul külön fiatványozódik,
pedig csinálhatja ,a végtelenségig,
az 1 ilyfor1nán mindig 1 marad
és nem szoroz az 1 és nem is oszt.

Vegyetek erőt magatokon
és legelőször is
a legegyszerűbb dologhoz lássatok –
adódjatok össze,
hogy roppant módon felnövekedvén, az Istent is, aki végtelenség,
valahogyan megközelítsétek.

Speaking of numbers

Do you know the numbers?

Men are numbers too,
a row of many 1’s in the notebook.
But they count themselves,
and the notebook is very surprised, because everyone
thinks only of himself,
he wants to distinguish from others, because
without reason
to power he rises:
he can certainly do this to infinity;
one remains one,
it does not divide or multiply.

Take strength,
look first
to the simplest things,
stay together:
because, enormously multiplied,
may you somehow approach God, who is infinite.

Si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla… o donna, e per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché mai due forme non erano uguali, e così per poco tempo, per un giorno solo talvolta, e in un piccolissimo spazio, avendo tutt’intorno l’ignoto, l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile dell’esistenza. Formichetta, si nasce, e moscerino, e filo d’erba. So io che sforzi faccio certi momenti a tenermi ritto su due zampe soltanto. Credi, amico mio: a lasciar fare alla natura, noi saremmo, per inclinazione, tutti quadrupedi. La meglio cosa! Più comodi, ben posati, sempre in equilibrio… Quante volte mi butterei a camminare a terra, così con le mani puntate, gattone! Questa maledetta civiltà ci rovina! Quadrupede, io sarei una bestia selvaggia; quadrupede, ti sparerei un pajo di calci nel ventre per le bestialità che hai detto; quadrupede, non avrei moglie, né debiti né pensieri.

Intanto però era nato un uomo, un picciliriddro, un carusu che di nome faceva Luigino.

Biografia del figlio cambiato, Andrea Camilleri

Se ti guardo negli occhi,
svanisce ogni mia pena, ogni tormento;
se ti bacio la bocca,
perfettamente sano ecco divento.
Se mi appoggio al tuo seno,
discende in me come un divino incanto;
ma se mi dici. “Io ti amo”,
frenar non posso, ahimè, l’amaro pianto.

Heinrich Heine (1797 – 1856)

Ei, come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri.
 
La Lupa, Giovanni Verga (1880)

– Una serenità fittizia…
– E il motivo?
– Se tu mi chiedi quando sono stata più felice…
– Mamma…
– Dimmi in quale momento sei stata più felice.
– Lo so: lo so, è stato tantissimi anni fa.
– Si…
– Stai dicendo soltanto che una volta eri giovane!
– Mi ricordo di una mattina…

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

Uve di mare (1976), Derek Walcott

Sai, Harold, secondo me gran parte delle brutture di questo mondo viene dal fatto che gente che è diversa permette che altra gente la consideri uguale.

dal film Harold and Maude (1971), Hal Ashby

Maude: I should like to change into a sunflower most of all. They’re so tall and simple. What flower would you like to be?
Harold: I don’t know. One of these, maybe.
Maude: Why do you say that?
Harold: Because they’re all alike.
Maude: Oh, but they’re not. Look. See, some are smaller, some are fatter, some grow to the left, some to the right, some even have lost some petals. All kinds of observable differences. You see, Harold, I feel that much of the world’s sorrow comes from people who are *this* (points to a daisy),  yet allow themselves be treated as *that* (gestures to a field of daisies).

via

Mazunte (Oaxaca, Mexico)

¡Sí, todo con exceso: la luz, la vida, el mar!
Plural todo, plural,
luces, vidas y mares.
A subir, a ascender
de docenas a cientos,
de cientos a millar,
en una jubilosa
repetición sin fin,
de tu amor, unidad.
Tablas, plumas y máquinas,
todo a multiplicar,
caricia por caricia,
abrazo por volcán.
Hay que cansar los números.
Que cuenten sin parar,
que se embriaguen contando,
y que no sepan ya /cuál de ellos será el último:
¡qué vivir sin final!
Que un gran tropel de ceros /asalte nuestras dichas
esbeltas, al pasar,
y las lleve a su cima.
Que se rompan las cifras,
sin poder calcular
ni el tiempo ni los besos.
Y al otro lado ya
de cómputos, de sinos,
entregamos a ciegas
—¡exceso, qué penúltimo!—
a un gran fondo azaroso
que irresistiblemente
está
cantándonos a gritos
fúlgidos de futuro:
” Eso no es nada, aún.
Buscaos bien,
hay más. “

Pedro Salinas, La voz a ti debida (1933)

Clarissa attraversa Houston Street e pensa che dovrebbe prendere qualcosa per Evan: una piccola cosa per la sua salute precariamente riacquistata. Non fiori: i fiori sono abbastanza di cattivo gusto per i morti, ma sono disastrosi per gli ammalati. I negozi di SoHo sono pieni di vestiti per feste, di gioielli e di mobili Biedermeier: niente da offrire a un giovane uomo volitivo, brillante, che potrebbe o non potrebbe, con l’aiuto di un complesso di medicine, vivere più del breve periodo che normalmente gli resta. Cosa vogliono tutti? (…) Ecco la piccola e bella libreria di Spring Street. Forse a Evan piacerebbe un libro. Nella vetrina ce n’è uno (uno solo!) di Clarissa, quello inglese (criminale, il fatto che lei abbia dovuto combattere per una tiratura di diecimila copie e, ben peggio, il fatto che saranno fortunati se ne venderanno cinquemila), accanto alla saga di una famiglia del Sud America che lei ha perso a vantaggio di una casa editrice più importante, che chiaramente non guadagnerà perché, per ragioni misteriose, è rispettata ma non amata. C’è la nuova biografia di Robert Mapplethorpe, le poesie di Louise Gluck, ma niente sembra adatto. Sono tutti, allo stesso tempo, troppo generici e troppo specifici. Vuoi dargli il libro della sua vita, il libro che gli assegnerà un posto nel mondo, che gli farà da padre e madre, che gli darà delle armi per i cambiamenti che deve affrontare. Non ci si può presentare con dei pettegolezzi sulle celebrità, no; non si può portargli la storia di un romanziere inglese amareggiato dalla vita o le disgrazie di sette sorelle in Cile, per quanto siano scritti bene, e le probabilità che a Evan piaccia la poesia sono identiche a quelle che cominci a dipingere piatti di porcellana. Non c’è conforto, sembra, nel mondo degli oggetti, e Clarissa teme che l’arte, anche la più grande (anche i tre volumi di poesia di Richard e il suo unico, illeggibile romanzo), appartenga decisamente al mondo degli oggetti. In piedi di fronte alla vetrina della libreria, viene assalita da un vecchio ricordo, un ramo d’albero che batte contro una finestra mentre da qualche parte (dalle stanze in basso?) una debole musica, il lento lamento di una jazz band, attacca da un fonografo. Non è il suo primo ricordo (che sembra invece riguardare una lumaca che striscia sul bordo di un marciapiede), e neanche il suo secondo (i sandali di paglia di sua madre, o forse i due ricordi sono invertiti), ma questo ricordo sembra pressante più di ogni altro, e in maniera profonda, quasi soprannaturale, confortante. Clarissa era probabilmente in una casa del Wisconsin, una delle tante che i suoi genitori affittavano per l’estate (raramente due volte la stessa – ognuna finiva per avere qualche difetto che sua madre inseriva in un racconto che si allungava sempre, Le tribolazioni della famiglia Vaughan nel giro delle lacrime fra le vallette del Wisconsin). Clarissa doveva avere tre o quattro anni, in una casa in cui non sarebbe mai ritornata, della quale non ha alcuna altra memoria se non questa, precisamente distinta, più chiara di ciò che le è accaduto ieri: un ramo che batte alla finestra mentre attaccano le trombe, come se il ramo, mosso dal vento, avesse in qualche modo determinato la musica. Le sembra di aver iniziato in quel momento a vivere nel mondo, a capire le promesse implicite in uno schema che è più grande della felicità umana, sebbene contenga la felicità umana insieme a ogni altra emozione. Il ramo e la musica contano per lei più di tutti i libri nella vetrina del negozio.

‘Le ore’, Michael Cunningham (1998)

Non vede la relazione? Beh, neanche io. Ma è che certi richiami di immagini, tra loro lontane, sono così particolari a ciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze così singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie.  Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? ch’io me ne stessi a casa quieto, tranquillo, a coccolarmi in mezzo a tutte le sue più amorose e sviscerate cure; a godere dell’ordine perfetto delle stanze, della lindura di tutti i mobili, di quel silenzio di specchio che c’era prima in casa mia, misurato dal tic-tac della pendola da salotto da pranzo. Questo vorrebbe! Io ora domando a lei, per farle intendere l’assurdità…ma no, che dico l’assurdità! la màcabra feròcia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale. Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicchè veramente non debba importare a nessuno di finirla. E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perchè, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perchè la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di sè stessa, che non si lascia assaporare.

L’uomo dal fiore in bocca, Luigi Pirandello (1922)

Io sto qui col naso ben ficcato nella terra e ci sto fin dall’inizio dei tempi. Ho coltivato ogni sensazione che l’uomo è stato creato per provare. A me interessava quello che l’uomo desiderava e non l’ho mai giudicato, e sai perché? Perché io non l’ho mai rifiutato, nonostante le sue maledette imperfezioni! Io sono un fanatico dell’uomo, sono un umanista…probabilmente l’ultimo degli umanisti. Chi, sano di mente, Kevin, potrebbe mai negare che il ventesimo secolo è stato interamente mio?

L’avvocato del diavolo, sceneggiatura di Jonathan Lemkin e Tony Gilroy (1997)

A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico,  fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto,  fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro,  fran.

Non c’è una ragione. Perchè proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’ anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran. Non si capisce.

E’ una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e vedi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.

Novecento, Alessandro Baricco (1994)

Tu intendi vero? Qui non si tratta di gioia. Io mi consacro al tumulto: al godimento, che è tutt’uno col dolore, all’odio che nasce dall’amore, al tedio che ristora. Quel che è toccato in sorte a tutta l’umanità, io lo voglio godere entro me stesso. Voglio con lo spirito attingerla, quell’umanità, nel più alto e nel più profondo, e che il suo bene e il suo male s’addensino entro il mio petto. Dilatare me stesso fino al suo se stesso.

E alla fine, come lei e con lei, fare naufragio!

Faust, J. W. Goethe (1831)