Visto che hai già stappato una bottiglia di vino e detesti gli sprechi, intraprendi uno scavo archeologico nel cassetto della biancheria.
Si dice che un trasloco sia una preziosa occasione per disfarsi di ciò che non serve, e tu non hai fatto eccezione. Ti sei liberata di alcuni quintali di mutande, reggiseni, calze, collant e canottiere equamente distribuiti tra due categorie: o in condizioni pietose, o che non indossavi più perché troppo femminili/provocanti/leziosi e dunque non conformi al coma ormonale nel quale eri caduta e che per lungo tempo hai creduto irreversibile. Per non parlare di pile di libri che hai regalato ad associazioni di volontariato, vestiti che hai donato o venduto, e oggetti di ogni genere eliminati senza rimpianti. Normalmente, però, questa epurazione avviene prima del trasloco. Tu, al contrario, al momento di lasciare il tuo vecchio appartamento, hai meticolosamente imballato, incartato e impacchettato tutto, hai pagato una ditta di traslocatori perché trasportassero una sessantina di scatoloni fino al quarto piano senza ascensore dove vivi ora, e soltanto al momento di sballare, scartare e spacchettare sei stata colta da un improvviso quanto insopprimibile desiderio di libertà, leggerezza e rinnovamento: accingendoti al trasbordo dagli scatoloni alle mensole e agli armadi, sommersa da una valanga di vecchi fogli di giornale appallottolati e chilometri di pluriball, hai avvertito tutt’ad un tratto l’inutilità, l’orrore e l’inquietante schizofrenia di quell’accozzaglia di romanzi in quadruplice copia, tanga leopardati, suppellettili la cui prima ubicazione fu la tua cameretta di bambina, reggiseni imbottiti e calzini bucati in più punti. Hai quindi riposto gli scarti in altri scatoloni (che hai dovuto acquistare appositamente, visto che l’insopprimibile desiderio di libertà, leggerezza e rinnovamento di cui sopra aveva trovato il suo primo sfogo nella metodica distruzione ed eliminazione di quelli che ti erano serviti per il trasloco), li hai personalmente trascinati giù per otto rampe di scale, caricati nel bagagliaio della macchina e distribuiti, a seconda delle diverse destinazioni d’uso, tra: la casa dei tuoi genitori, i cassonetti del circondario, l’ufficio postale, la sagrestia della parrocchia, un sordido mercatino dell’usato, un fosso.
Tornando alla biancheria, devi carotare attraverso gli strati superstiti di magliette della salute e mutande rigorosamente bianche o grigie fino al substrato roccioso del cassetto, per ripescare un paio di autoreggenti sfuggite al rastrellamento. Mai indossate se non per fare qualche giochetto con un tuo ex attorno alla fine del Pleistocene, dunque scampate, a differenza tua, a smagliature e altri incidenti, ti fissano beffarde pregustando la vittoria. Sfili i calzettoni e le indossi con titubanza.
La fotografia del paio di gambe che appare, con lievissime differenze quanto a posa e scala cromatica, su ogni singolo pacchetto di calze autoreggenti del mondo è più ingannevole dell’immagine sulla confezione del Saccottino Mulino Bianco: la delusione nel constatare la disperante e incolmabile discrepanza tra le aspettative (proditoriamente alimentate dalla visione di quei due stecchi inguainati di nylon) e l’effetto di un paio di autoreggenti nella vita reale, è infatti paragonabile soltanto al senso di disinganno che abbia provato chiunque, aprendo a metà un Saccottino, si sia imbattuto in uno sterile e cachettico micron di cioccolato invece di venire sommerso da un blob di cacao cremoso, come da illustrazione. Mano a mano che l’autoreggente viene issata dalla caviglia al polpaccio al ginocchio, sembra raccattare, come una slavina al contrario, porzioni di carne fino ad un istante prima mimetizzate nel paesaggio, ora palesemente in eccesso, che deflagreranno in un’esplosione adiposa subito sopra l’orlo dell’autoreggente stessa, conferendo all’insieme l’aspetto di un muffin la cui pasta sia debordata dall’apposita formina durante la cottura. A meno che tu non sia il cartonato di Alessandra Ambrosio, il risultato finale, unito al rischio di essere colpita da trombosi quando sfilerai le calze, dà al tutto un tocco tra il pornoamatoriale e il postchirurgico.

Tra i tanti profili suggeriti da Giacomo, il più istruttivo risulta essere quello di Danae Mercer, la cui galleria è costituita da coppie di fotografie che la ritraggono mentre assume alternativamente una posizione instagrammabile e una posizione rilassata. La lezione che la Mercer vorrebbe divulgare è che quasi nulla di ciò che appare sui social ha la minima attinenza con la vita reale. La lezione che trai tu dopo avere studiato nel dettaglio accumuli adiposi, ragnatele di profonde smagliature, festoni di lardo sotto le scapole, carne molliccia, cuscinetti e grinze sparsi ovunque sul suo corpo, è che non potrai mai più assumere una posizione rilassata. Concentrandoti sulle posizioni instagrammabili e tenendo quelle rilassate a mo’ di monito, del tutto indifferente alle istanze etiche ed educative dell’iniziativa, studi i trucchi per occultare qualsiasi imperfezione e scattare il selfie perfetto. Sfortuna vuole che nemmeno la Mercer abbia avuto il fegato di cimentarsi con un paio di autoreggenti. Tuttavia, la bottiglia di vino che hai aperto è ormai vuota per metà, ti sei spogliata, ti sei sfilata i calzettoni e ti sei infilata le calze: è chiaro che ti sei spinta troppo oltre per tornare indietro. Altrettanto chiaro è quanto la forza di gravità giochi un ruolo essenziale: sulla carne ribelle che tracima dal bordo in finto pizzo sembra convergere il peso del mondo, e di certo il ristagno della circolazione di tre quarti del tuo corpo. Una foto in piedi davanti allo specchio è quindi da escludere. Lanci un’occhiata al letto. È sommerso di vestiti, che devi quindi raccogliere e ammassare su una sedia, prima di rimboccare bene le lenzuola e posizionare ordinatamente i cuscini. Sei ancora un’influencer in pectore e già ne hai piene le palle.
Ti accomodi sul letto e, dopo aver ruotato la fotocamera verso di te, tendi il braccio e lo muovi finché il tuo tronco non entra nell’inquadratura. Indossi ancora la canottiera ingrigita, ma col freddo che fa non hai nessuna intenzione di toglierla: almeno non finché Instagram non stipulerà una convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale per coprire le spese mediche alle sue utenti in caso di broncopolmonite bilaterale (quanto alla cirrosi epatica non osi chiedere tanto, sospettando che la necessità di bere per trovare la forza di farsi un autoscatto sia quasi esclusivamente un problema tuo). Cerchi di orientare il cellulare verso le gambe, tese in una posizione innaturale. Inoltre, ecco di nuovo la maledetta forza di gravità, che ora schiaccia la carne contro il materasso, esasperando l’effetto muffin. Pieghi appena le ginocchia. Così va meglio: avanzi, eccessi, debordi franano verso la parte posteriore delle cosce e spariscono dall’inquadratura. La scelta di abortire la missione suicida Foto-da-in-piedi si rivela a maggior ragione felice, poiché, al posto delle due teste di neonati urlanti che compaiono ogni volta che assumi la posizione eretta, ora attraverso la velatura del nylon fanno capolino quelle che hanno tutto l’aspetto di un paio di rotule. Finalmente senti che il tuo impegno verrà ricompensato.

Per ottenere l’inquadratura ottimale, devi tenere il cellulare a debita distanza, quindi protendi il braccio destro il più possibile, torcendo il polso. Facendo perno sul gomito sinistro, ti issi in posizione semiseduta, sempre con le gambe appena piegate, mentre con la testa rovesciata all’indietro controlli che le cosce occupino esattamente il centro dello schermo. In piena trance agonistica, complice anche il vino, vieni visitata da due apparizioni: la prima è l’Ispettore Gadget, con quegli arti allungabili che gli invidiavi fin da bambina, ogni volta che ti buttavi sul divano accorgendoti una frazione di secondo troppo tardi di aver lasciato il telecomando accanto al televisore. La seconda ha per protagonista quell’onesto cittadino del Pakistan che per un’estate intera, nel lontano 2010, ti aveva dato il tormento cercando di venderti quello che, ti aveva garantito, sarebbe diventato un articolo imprescindibile negli anni a venire: il selfie stick. Stai scontando ora la supponenza con la quale, nell’estate del lontano 2010, avevi scacciato quell’onesto cittadino del Pakistan, ben sicura che mai e poi mai ti saresti abbassata ad una pratica tanto ridicola e avvilente. Macché. Tu? Figuriamoci.
Ottenuto il risultato desiderato nonostante la penuria di arti allungabili e bastoni, ti accorgi che il pollice non arriva al tasto per scattare la fotografia. Consapevole che qualsiasi micromovimento rischierebbe di vanificare il risultato tanto faticosamente raggiunto (giusta inclinazione, inquadratura centrata, occultamento di canottiere ingrigite ed eccessi di lardo, parvenza di rotule al posto di neonati urlanti), tendi il pollice allo spasimo verso l’agognato bottoncino con la folle determinazione dell’invasata. Ed ecco che vieni trafitta da un crampo lancinante tra il collo e la spalla, talmente doloroso che molli la presa e il cellulare ti precipita di spigolo sullo zigomo.

(continua)