L’altro (Ten Inny) di Ryszard Kapuściński
Universale Economica Feltrinelli – Saggi, 2007
da “Le Conferenze viennesi”, 2004
“Parlando di viaggio, non ci riferiamo certo all’avventura turistica. Per la mentalità del reporter il viaggio significa sfida e sforzo, capacità e sacrificio, un compito arduo, un ambizioso progetto da portare a termine. Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo a un evento di cui siamo nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa.
Tanto per cominciare, siamo responsabili della strada che percorriamo. Spesso sappiamo perfettamente che la percorreremo quell’unica volta, che non ci torneremo mai più, e quindi che non abbiamo il diritto di trascurarne o perderne il minimo dettaglio. Dettagli di cui renderemo conto, su cui scriveremo relazioni o racconti e che riepilogheremo nel nostro esame di coscienza. Per questo viaggiamo concentrati e con l’orecchio sempre in ascolto. La strada che si percorre è importante, poichè ogni passo ci avvicina all’incontro con l’altro. E’ per questo che ci siamo messi in viaggio. Quale altro motivo avrebbe potuto indurci ad affrontare fatiche, rischi, scomodità e pericoli?
Non è solo il viaggio intrapreso volontariamente, il viaggio come forma di vita, a essere una rarità. Anche una forte curiosità per il mondo è un fenomeno raro. Alla maggior parte delle persone esso interessa ben poco. La storia conosce intere civiltà che non hanno mostrato il minimo interesse per il mondo esterno. L’Africa non ha mai costruito una nave per navigare e scoprire che cosa ci fosse oltre i mari che la circondavano. I suoi abitanti non hanno tentato di arrivare neanche alla pur vicina Europa. La civiltà cinese ha fatto anche di più isolandosi addirittura dal resto del mondo per mezzo di un’alta muraglia. (Anche se gli imperi dotati di armate a cavallo, come i persiani, gli arabi e i mongoli, si sono comportati diversamente, il loro scopo non era quello di conoscere il mondo, ma di conquistarlo con le armi e assoggettarlo. Comunque le fasi di slancio e di pressione erano relativamente brevi, dopodichè gli imperi crollavano, sepolti per sempre sotto la sabbia.)
In questo corteo di civiltà l’Europa costituisce un’eccezione. E’ l’unica, a partire dall’antica Grecia, a manifestare una curiosità per il mondo – nonchè il desiderio non solo di assoggettarlo e dominarlo, ma anche di conoscerlo; anzi, per quanto riguarda le sue menti migliori, soltanto quello di conoscerlo, comprenderlo e creare una comunità umana. E’ qui che avranno luogo, il tutta la loro evidenza, complessità e drammaticità, i nostri rapporti con i rimanenti abitanti del pianeta: gli altri.
Questi rapporti hanno una lunga tradizione. In letteratura essa inizia con le grandi Storie di Erodoto. Lo storico greco, vissuto duemilacinquecento anni fa, ci mostra che già allora il mondo a lui accessibile era popolato da numerose società progredite e mature, provviste di una cultura ben sviluppata e di un forte senso di identità: in una parola, che il primo europeo, ossia il greco, pur bollando come non greco (barbaros) chiunque non parlasse la sua lingua, si rendeva conto che questo altro era comunque qualcuno. Erodoto parla degli altri senza disprezzo e né odio; cerca di conoscerli, di capirli e spesso dimostra addirittura come per molti aspetti essi superino gli stessi greci.
Erodoto conosce la natura sedentaria dell’uomo e sa che per entrare in contatto con gli altri bisogna mettersi in cammino, giungere fino a loro e manifestare il desiderio di incontrarli; per questo viaggia in continuazione, visita egizi e sciiti, persiani e lidi, ricordando sia quello che viene a sapere da loro sia quello che vede con i propri occhi. In una parola, vuole conoscere gli altri: gli altri sono lo specchio nel quale ci vediamo riflessi. Sa che per capire meglio sé stessi bisogna conoscere gli altri, confrontarsi e misurarsi con essi. Lui, cittadino del mondo, è contrario all’isolarsi dagli altri e al chiudere loro la porta. La xenofobia, sembra dire Erodoto, è la malattia di gente spaventata, afflitta da complessi di inferiorità e dal timore di vedersi riflessa nello specchio della cultura altrui.”
[…]
“La fine del medioevo europeo e l’inizio dell’era moderna, al grande spedizione dell’Europa alla conquista del mondo, l’assoggettamento dell’altro e la rapina dei suoi beni hanno scritto pagine di sangue e crudeltà nella storia del nostro pianeta. La portata delle pratiche genocide di quell’epoca, durata oltre tre secoli, verrà superata solo nel XX secolo dalle macabre fattezze dell’Olocausto. Per gli europei che in quei tempi muovono alla conquista del pianeta, l’altro si configura come un selvaggio nudo, cannibale e pagano che per l’europeo – bianco e cristiano – è un sacro diritto e dovere sottomettere e calpestare. Una delle cause di inaudita brutalità e crudeltà che caratterizzavano i bianchi non era soltanto l’avidità di oro e di schiavi che che divorava le menti e accecava le élite europee, ma anche il livello morale e culturale incredibilmente basso di coloro che venivano mandati per il mondo in avanscoperta degli altri. Le ciurme delle navi si componevano per buona parte di malfattori, di criminali e di notori banditi, o nel migliore dei casi, di vagabondi, di senzatetto e di falliti. Difficile, infatti, convincere una persona normale a partire per un viaggio-avventura spesso destinato a finire con la morte.
Il l fatto che per secoli l’Europa abbia spedito a incontrare l’altro (e soprattutto a incontrarlo per la prima volta) i suoi rappresentanti più abietti stenderà un’ombra sinistra sui nostri rapporti con gli altri, formerà le nostre opinioni correnti su di essi, consoliderà nelle nostre menti stereotipi, preconcetti e fobie che, sotto questa o quella forma, continuano ancora a sussistere. E’ una constatazione che faccio ogni volta che sento persone, apparentemente sensate, sostenere che per l’Africa non esiste altra via d’uscita se non una nuova colonizzazione.
Conquistare, colonizzare, dominare, assoggettare: è questo l’impulso nei confronti degli altri che da sempre si ripete nella storia del mondo. Dovranno passare molte migliaia di anni prima che alla mente umana si affacci il sospetto di una possibile uguaglianza tra noi e l’altro.
Parlando degli altri e delle nostre relazioni con essi mi riferisco solo ai rapporti interculturali e interraziali, in quanto si tratta della sfera con cui più spesso mi sono trovato in contatto. Osservando la cosa da un punto di vista storico, si vede come, dopo tre secoli di brutale e implacabile espansione delle corti e del capitale europeo (e non mi riferisco solo alla conquista di popolazioni al di là del mare, ma anche di popolazioni e territori al di là del mare, ma anche ad azioni territoriali quali ad esempio lo sterminio delle popolazioni siberiane a opera dei russi), nel XVIII secolo si verifica un graduale (ma solo parziale, seppure importante) mutamento d’atmosfera e di rapporti nei confronti di quell’altro e di quegli altri che di solito costituiscono le società extraeuropee.
E’ l’era dell’Illuminismo, dell’umanesimo, della rivoluzionaria scoperta che il non-bianco, il non-cristiano e il selvaggio, questo altro mostruoso e così diverso da noi, é anche esso un uomo.”
da “Il mio altro”, 1990
“…vorrei tratteggiare – in modo per forza di cose sintetico – non un ritratto astratto e generico dell’altro, ma l’immagine del mio altro, dell’altro che ho incontrato nei villaggi indi della Bolivia, tra i nomadi del Sahara, tra le folle che nelle strade di Teheran piangevano la morte di Khomeini. Qual’è la loro visione del mondo? In che modo vedono gli altri? In che modo, ad esempio, vedono me? Perchè se è vero che per me loro sono gli altri, è altrettanto vero che per loro l’altro sono io.
La prima cosa che salta agli occhi è la la sensibilità del mio altro al colore della pelle. Il colore sta al vertice della scala usata per classificare e valutare la gente. Possiamo trascorrere tutta la vita senza riflettere sul fatto di essere neri, gialli o bianchi fino al momento in cui non usciamo fuori dalla nostra sfera razziale. All’istante si crea una tensione, all’istante ci sentiamo altri, circondati da altri altri. Quante volte, in Uganda, sono stato toccato da bambini che poi si toccavano le dita per vedere se per caso fossero sbiancate! Questo stesso meccanismo – o addirittura impulso – di identificazione e di valutazione in base al colore della pelle agiva anche per me. Negli anni della Guerra fredda, in cui la spietata divisione ideologica tra Est e Ovest imponeva la reciproca ostilità, per non dire un reciproco odio, tra la gente al di là e al di qua della Cortina di ferro, io, corrispondente di una nazione dell’Est in mezzo alla giungla dello Zaire, mi gettavo con gioia tra le braccia di un occidentale, vale a dire di un “imperialista” mio “nemico di classe”, per la semplice ragione che quel “bieco sfruttatore guerrafondaio” era un bianco. Occorre spiegare quanto mi vergognassi di questa mia debolezza ma, al tempo stesso, quanto fossi incapace di contrastarla?
La seconda componente della visione del mondo del mio altro è il nazionalismo. Come di recente ha giustamente osservato il professor John Lukacs, verso la fine del XX secolo il nazionalismo si è rivelato il più forte tra gli “ismi” noti all’uomo moderno. Talvolta questo nazionalismo assume un carattere paradossale, manifestandosi ad esempio in zone dell’Africa dove ancora non esistono le nazioni, ma esiste il nazionalismo (o, come sostengono alcuni sociologi, il sub-nazionalismo). Il nazionalista tratta la propria nazione o, nel caso dell’Africa, il proprio stato, come il valore supremo, e tutti gli altri come qualcosa di inferiore (e spesso degno di disprezzo). Il nazionalismo, a somiglianza del razzismo, è uno strumento di identificazione e classificazione che il mio altro applica in ogni occasione. Si tratta di uno strumento grossolano e primitivo che appiattisce e assottiglia l’immagine dell’altro. Per un nazionalista la persona dell’altro possiede una sola e unica caratteristica: l’appartenenza nazionale. (…) L’aspetto temibile del nazionalismo è il suo essere inseparabilmente associato all’odio per l’altro. Può variare la dose, ma la presenza dell’odio è assicurata.
E infine, la terza componente della visione del mondo del mio altro è la religione. La religiosità si manifesta su due piani: da un alto, su quello di una generica e non verbalizzata fede nell’esistenza e presenza di una trascendenza, di una Forza Fattrice, di un Essere Supremo, di Dio (una domanda che spesso mi sentivo rivolgere era: “ Mr. Kapuściński, do you believe in god? ”, e ciò che rispondevo influiva in modo determinante sul seguito degli eventi). Dall’altro, su quello della religione in quanto istituzione, forza sociale e perfino politica. E’ a questo secondo caso che intendo adesso riferirmi. Il mio altro è un essere che crede profondamente nell’esistenza di un mondo ultraterreno e sovramateriale: ma questa fede è esistita da sempre. La nuova caratteristica dei tempi odierni è invece una sorta di rinascita religiosa riscontrabile in molti paesi. La religione che oggi si sviluppa con maggior dinamismo è indubbiamente l’islam. La cosa curiosa è che ovunque si verifichi questa rinascita di ardore religioso – indipendentemente dal tipo di religione -, essa ha sempre un carattere reazionario, conservatore e fondamentalista.
Questo è il mio altro. Quando il destino lo porta a sua volta a imbattersi in un altro – altro per lui – egli ne noterà soprattutto tre caratteristiche principali: la razza, la nazionalità e la religione. Mi sono sempre chiesto che cosa accomuni così strettamente questi tre dati. Contengono una forte carica emotiva: talmente forte, che di tanto in tanto il mio altro non è in grado di controllarla. E allora arriva al conflitto, allo scontro, alla carneficina, alla guerra. Il mio altro è una persona fortemente emotiva. Per questo il mondo in cui vive è una botte di polvere da sparo che rotola pericolosamente verso il fuoco.
Il mio altro non è di pelle bianca. Quale percentuale rappresenta nel mondo odierno? L’ottanta per cento.”
da “L’incontro con l’altro come la sfida del XXI secolo”, 2004
“Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro, ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: fargli guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo. Nel corso della storia vediamo l’uomo esitare in continuazione tra queste opzioni, scegliendo l’una o l’altra a seconda della situazione e della cultura. E’ ‘ mutevole nelle sue decisioni, non sempre si sente sicuro, non sempre sente la terra salda sotto i piedi. Quella della guerra è un’opzione difficilmente giustificabile: penso che ne escano tutti perdenti, poichè è una sconfitta dell’essere umano che rivela la sua incapacità di intendersi, di immedesimarsi nell’altro, di mostrarsi buono e intelligente. In questo caso l’incontro con l’altro si traduce sempre tragicamente nel sangue e nella morte.
Nel mondo moderno l’idea che induce l’uomo a erigere grandi muraglie e a scavare profondi fossati per mantenersi isolato dagli altri è stata definita come la dottrina dell’apartheid. Un concetto erroneamente limitato alla sola politica del regime, oggi scomparso, dei bianchi del Sudafrica. In realtà l’apartheid veniva già praticato in tempi più remoti. Semplificando, si tratta di un’ideologia secondo la quale chiunque non appartenga alla mia stessa razza, religione e cultura è libero di vivere come vuole, purché alla larga da me. La cosa, tuttavia, è meno semplice di quanto sembri. In realtà abbiamo a che fare con una dottrina proclamante la fondamentale e insanabile disuguaglianza che divide il genere umano.
I miti di molte tribù e popolazioni si basano sulla convinzione che i veri esseri umani siano soltanto loro, ossia i membri di un clan di una società: gli altri, tutti gli altri, sono subumani o addirittura non umani. Quanto diversa appare invece l’immagine dell’altro all’epoca delle fedi antropomorfiche, quelle cioè in cui gli dèi potevano assumere forma umana e comportarsi come uomini. A quei tempi non si sapeva mai se il viandante fosse un uomo o un dio celato sotto sembianze umane. Questa incertezza, questa intrinseca ambivalenza è una delle fonti della cultura dell’ospitalità che impone di accogliere con benevolenza il nuovo arrivato.
Ne parla il poeta polacco Cyprian Norwid nella sua introduzione all’Odissea, interrogandosi sulle ragioni dell’ospitalità ricevuta da Ulisse nel suo viaggio di ritorno verso Itaca.
“Alla vista di un mendicante e di un vagabondo,” osserva l’autore del Proethidion, “ci si chiede subito se per caso non si tratti di un dio. Non si accoglie l’ospite chiedendogli chi sia: prima se ne onora la divinità e solo dopo si passa alle domande umane. In cin ciò consiste appunto l’ospitalità, non per niente annoverata tra le pratiche e le virtù religiose. Tra i greci di Omero non esisteva ‘l’ultimo degli uomini’: egli è sempre primo, vale a dire divino”.
[…]
“Lévinas analizzava la relazione io-l’altro nell’ambito di un’unica società, storicamente e razzialmente unitaria. Malinowski studiava le tribu melanesiane all’epoca in cui esse conservavano il loro stato primitivo, ancora incontaminato dagli effetti della tecnologia, dell’organizzazione, e del mercato occidentali.
Oggi è sempre più raro poter condurre operazioni del genere. La cultura diventa ogni giorno più ibrida e eterogenea. Tempo fa, a Dubai, ho visto una cosa incredibile. Una ragazza, sicuramente musulmana, camminava lungo la via del mare con addosso jeans e maglietta attillati. Solo la testa era coperta da un chador nero così rigorosamente austero da non lasciare intravedere neanche gli occhi.
Oggi esistono settori della filosofia, dell’antropologia e della critica letteraria che si dedicano a un attento esame di questo processo di ibridazione, di fusione e di trasformazione culturali. E’ un processo riscontrabile soprattutto nelle regioni dove le frontiere tra gli stati delimitano anche culture diverse (per esempio la frontiera tra Messico e Stati Uniti) o in gigantesche metropoli quali San Paolo,
New York, Singapore, dove si mescolano i rappresentanti delle più svariate razze e culture. Se oggi diciamo che il mondo è diventato multietnico e multiculturale non è perchè le società e le culture siano più numerose di una volta, anzi, ma perchè parlano con voce sempre più autonoma e determinata, chiedendo di essere riconosciute e ammesse alla tavola rotonda delle nazioni.
La vera sfida del nostro tempo – l’incontro con il nuovo altro, altro per razza e per cultura – nasce anche da un più ampio contesto storico. In particolare, la seconda metà del XX secolo è un periodo in cui due terzi della popolazione mondiale si liberano dalla dipendenza coloniale diventando cittadini di stati almeno nominalmente indipendenti. Un po’ per volta questa gente comincia a riscoprire il proprio passato, i propri miti, le proprie radici, la propria storia, il senso della propria identità nonchè, evidentemente, l’orgoglio che ne deriva. Comincia a sentirsi sè stessa, a sentirsi padrona del proprio destino e a guardare con odio tutti i tentativi di trattarla come un oggetto di dominazione.
Il nostro pianeta, popolato per secoli da un ristretto gruppo di gente libera e da molteplici strati di gente sottomessa, oggi è abitato da un numero sempre crescente di nazioni e società sempre più convinte dell’importanza del proprio valore individuale.
E’ un processo che spesso si attua tra grandi difficoltà, grandi drammi e conflitti. Può darsi che ci stiamo inoltrando in un mondo così completamente nuovo e diverso che le esperienze storiche in nostro possesso non siano sufficienti a comprenderlo e a muovercisi.
Comunque sia, il mondo in cui stiamo entrando è il Pianeta della Grande Occasione. Un’occasione non incondizionata, ma alla portata solo di coloro che prendono il proprio compito sul serio, dimostrando automaticamente di prendere sul serio sè stessi. Un mondo che se, da un lato, offre molto, dall’altro chiede anche molto e dove cercare facili scorciatoie significa spesso non arrivare da nessuna parte.
Vi incontreremo continuamente il nuovo altro, lentamente emergente dal caos e dalla confusione del mondo contemporaneo. Può darsi che questo altro scaturisca dall’incontro tra le due opposte correnti che formano la cultura del mondo moderno: la corrente che globalizza la nostra realtà e quella che conserva le nostre diversità, la nostra unicità e irripetibilità. Può darsi che egli ne sia il frutto e l’erede. Per questo dobbiamo cercare con lui un dialogo e un’intesa. L’esperienza di tanti anni trascorsi in mezzo agli altri di paesi lontani mi insegna che la benevolenza nei loro confronti è l’unico atteggiamento capace di far vibrare la corda dell’umanità.
Chi sarà questo nuovo altro? Come si svolgerà il nostro incontro? Che cosa ci diremo? In quale lingua? Riusciremo ad ascoltarci e a capirci a vicenda? Riusciremo insieme a trovare, come dice Conrad, “ciò che parla alla nostra capacità di provare meraviglia e ammirazione, al senso di mistero che circonda la nostra vita, al nostro senso della pietà, del bello e del dolore, alla segreta comunione con il mondo intero e, infine, alla sottile ma insopprimibile certezza della solidarietà che unisce la solitudine di infiniti cuori umani, all’identità di sogni, gioie, dolori, aspirazioni, illusioni, speranze e paure che lega l’uomo all’uomo e accomuna l’intera umanità: i morti ai vivi e i vivi agli ancora non nati”?