Attila József
Con Cuore Puro
Tiszta szívvel
ANTOLOGIA POETICA
A cura di Umberto Albini
Introduzione di Miklós Szabolcsi
© 1972 EDIZIONI ACCADEMIA Milano
IL MAESTRALE
collana di poesia moderna
diretta da Carlo Bo
a cura di Giuseppe Bellini
Indice
Amara invocazione di una decisione 9
Nota biografica
Attila József nacque a Budapest, nel 1905. Tre anni dopo, il padre, un operaio, emigrava per cercarsi una sistemazione migliore e non avrebbe più dato notizie di sé: la madre, per riuscire a tirare avanti i tre figli (Jolanda, Eta, Attila) è costretta a fare la domestica. Ancora bambino, Attila viene mandato come mandriano di porci presso parenti adottivi, in campagna: nel 1912 ritorna a Budapest e vi trascina a lungo un’esistenza miseranda, cercando di campare come può. Vende acqua nei cinema, pane nei caffè, giornali per le strade. La madre, sfinita da stenti e fatiche, muore di cancro nel 1919. Attila è accolto in casa dal cognato, il marito di Jolanda, e potrà andare a scuola; ma sarà pur sempre obbligato ai più vari mestieri, per sopravvivere: mozzo a bordo di un rimorchiatore danubiano, rappresentante di libri, impiegato di banca. Superato l’esame di maturità, si iscrive nel 1924 all’Università di Szeged. Ma intanto è messo sotto inchiesta e processato per una sua poesia, Cristo ribelle (il suo primo libro di versi era uscito nel 1922, con prefazione di un noto scrittore ungherese*, che gli era divenuto amico). Nel 1925, uno dei suoi professori gli dichiara perentoriamente che se continua a scrivere quello che scrive (come la poesia Cuore puro) non otterrà mai un posto di ruolo nell’insegnamento medio. József passa all’Università di Vienna: per mantenersi, lavora come strillone, si adatta ad umili mansioni nel collegio ungherese, mangia da conoscenti. Nel 1926 è a Parigi, nel 1927 a Cagnes sur mer. Rientrato a Budapest, riprende a frequentare, per poco, l’università: si impiega in una ditta commerciale, che è costretto a lasciare quasi subito. Si iscrive al Partito comunista clandestino. Nel 1931 viene confiscato, per il suo contenuto infuocato, il suo volume Abbatti il capitale, su, non piagnucolare. Sotto l’assillo costante della miseria e della fame, dal 1933 in poi, le condizioni di salute di József vanno sempre peggiorando. Una cura psicoanalitica sbagliata, l’espulsione dal Partito comunista, un amore non ricambiato aggravano lo stato del poeta, che si ucciderà nel 1937, gettandosi sotto le ruote di un treno, in una piccola stazione del Balaton.
Dare delle etichette alla poesia di József è facilissimo: lo si può definire il bardo della rivolta, il poeta del popolo, un lirico d’amore, un profeta sociale, l’ultimo francescano, il rinnovatore del simbolismo, l’araldo del realismo. Sono cartellini interscambiabili, e comunque validi. Perché la grandezza di József consiste appunto in questo: nell’avere fatte proprie (con una sconvolgente fantasia e inventiva lessicale, metrica, ritmica, di immagini) le esigenze di tutt’un epoca, di una classe, dell’individuo, dell’intellettuale. Con lucida esasperazione, la sua voce di clamantis in deserto si leva a dire dell’uomo, dell’ordine rivoluzionario, delle leggi che devono regolare l’universo; egli ha recepito in sé le istanze di un aspro periodo di ansie, di minacciosa attesa, di incombente tragedia. E ha anche parlato di sé, dei suoi incontri, delle sue speranze, delle sue delusioni e sconfitte del suo immenso bisogno di voler bene, a Dio, alle persone, alle cose, della sua vocazione di artista. Con slancio fanciullesco, con ferocia a volte, ha fatto della poesia un’arma della lotta per l’esistenza personale e collettiva. Ha tracciato tetri quadri sociali, ha cercato risposta ai grandi interrogativi: ha disegnato paesaggi esterni e interni di limpida e talvolta allucinante evidenza, formulato resoconti di una obiettività lancinante, mescolando tristezza e speranza, furore e abbattimento, dolcezza e collera violenta. Intuizione di nuove strutture, e della loro necessità, coscienza della vitalità del molteplice, comunione profonda con la realtà, volontà di essere utile al risveglio dell’uomo: un’estrema freschezza, una capacità incredibile consolatoria persino sulla soglia di strazianti inferni contraddistinguono il mondo di József.
Quando altri si chiudeva nella torre di avorio della letteratura, Attila ha combattuto, e pagato, nelle prime file: ma forse, anche per questo, la sua lirica ha un timbro di estrema purezza, il sigillo costante della verità.
UMBERTO ALBINI
a Giovanna
Introduzione
Si leggono in questo volume le liriche di un poeta, di un uomo che ha vissuto una vita difficile e creato una grande poesia. Difficile è l’epoca in cui egli visse e morì; è l’epoca fra le due guerre mondiali, piena di speranze e di fiducia, ed anche di grandi crisi e abbattimenti; l’epoca che cominciò col trattato di pace e sboccò nella guerra. Egli visse in un paese dalla situazione molto precaria, in un piccolo paese, che in que-sto quarto di secolo soffrì grande miseria ed oppressione, dove sotto la superficie scintillante grande era l’esasperazione e la fame, dove l’intellettuale e il contadino, l’operaio e il piccolo impiegato si trovavano ugualmente male. Un paese che quando il Poeta si maturo uomo, marciava insieme coi nazisti tedeschi verso la guerra. Nefasta e sinistra era dunque l’epoca, e difficile la vita, e dalla penna del Poeta nacque la lirica che per noi ungheresi e la maggiore nella nostra letteratura moderna. Mi sia permesso di rievocare soltanto di sfuggita e con le date principali le piú impor-anti tappe della vita piena di lotte di Attila József.
Nacque a Budapest, nel 1905. Suo padre era operaio in una saponeria, e quando il figlio ebbe tre anni, il padre emigro, così la madre, una lavandaia, dovette mantenere da sola la piccola famiglia, a costo di grandi lotte e privazioni. Negli anni sempre più difficili della prima guerra mondiale la famiglia si trova in grandissima miseria; la madre è vittima di un cancro uterino e deperisce di giorno in giorno. Dopo la difficile e penosa infanzia segue per il Poeta una adolescenza non meno laboriosa. Dopo la morte della madre il Poeta – con l’aiuto di un cognato -s’iscrive al ginnasio di una piccola città di provincia dell’Ungheria, poi, dopo l’esame di maturità, alla facoltà di filosofia dell’Università di Szeged. La sua carriera di poeta comincia già negli anni del ginnasio: egli ha diciassette anni, e ancora scolaro di ginnasio, quando esce il suo primo volume (Il mendicante della bellezza), e durante gli anni dell’Università viene pubblicato il secondo volume, col titolo estremamente caratteristico: Non io grido, è la terra che rimbomba ( 1924). Seguono un anno a Vienna, uno a Parigi, studi e miseria da studenti, occasioni di conoscere la letteratura, la politica, gli uomini. Nel 1927 ritorna a Budapest, per un anno si iscrive ancora all’Università, e da allora in poi non e altro che un « libero nuotatore », cioè un poeta per lo più senza professione, senza posto, che riceve di che vivere dalla sua attività letteraria. Il terzo volume del Poeta ancora in stato di formazione, in cerca della sua propria voce è Non ho né padre, né madre (1930). Nell’epoca della grande crisi economica e della grande ondata rivoluzionaria degli anni ’30, József aderisce al partito comunista clan-destino, nei cui ranghi lavora per alcuni anni. La sua carriera di poeta subisce un mutamento negli anni ’30 (Abbatti il tronco, 1931), e raggiunge la sua massima espressione nel 1932-33, quando lottando coi propri mali individuali, con problemi personali e contro la pressione sempre piú forte del fascismo ungherese crea le sue grandi poesie di idee, proprio quelle che significano un mutamento in tutta la poesia ungherese e aggiungono senza dubbio un colore nuovo anche alla lirica europea (Notte di sobborgo, 1932; Ballo d’orso, 1934; Fa molto male, 1936). Gli ultimi anni della sua vita sono tormentati da una grave malattia, da una neurosi che si estende sempre di più, ma la sua poesia vola in alto anche in questi ultimi mesi difficili e rivela profondità fino allora sconosciute. Nel 1937, il 3 dicembre, in un piccolo luogo di villeggiatura sul lago Balaton egli si getta davanti al treno.
La regione delle fonti della sua poesia sono le migliori tradizioni della lirica ungherese ed europea. All’esordio della sua poesia egli aderisce alla grande rivoluzione della lirica ungherese, combattuta due decenni prima da Endre Ady e dai poeti della rivista « Nyugat », « Occidente », cioè alla scuola dell’impressionismo e del simbolismo; a maniere poetiche riempitesi in Ungheria della materia del sentimento della rivolta, anzi del sentimento rivoluzionario. Vivere la grande, la piena Vita: questo significava nello stesso tempo la rivolta e la volontà di uscire dalle circostanze e dalle limitazioni.
Come i g1ovani poeti dell’epoca egli s’imbevve anche delle istanze espresse da Baudelaire e Verlaine, da Whitman e Carducci. Ed arrivò il momento in cui conobbe la poesia d’avanguardia, prima di tutto gli espressionisti tedeschi e i loro seguaci ungheresi, ma anche i costruttivisti e i dadaisti. Esprimere lo spettacolo del vecchio mondo frantumato in versi liberi frantumati o largamente ondeggianti; rievocare con grande slancio l’Uomo Nuovo, il Nuovo Mondo della Tecnica; reprimere il desiderio d’amore e i sospiri di un giovane ventunenne senza casa, ecco quello che egli ha imparato dalla poesia d’avanguardia all’inizio del decennio ’20-’30.
Per completare ancora questo quadro: egli leggeva molto, era orientato in molte direzioni: a suo modo era un poeta molto dotto. Poeta dotto non soltanto nel senso che egli assorbì in sé all’Università e dai libri la scienza l’uomo venuto dal basso era ben versato nella letteratura, nella psicologia nella linguistica, nel folklore e naturalmente anche nella politica, ma anche nel senso che egli cercò di penetrare profondamente nei segreti delle lingue e delle letterature straniere. Oltre il latino e il greco egli sa bene il tedesco e il francese, ma più tardi legge anche libri italiani, rumeni, cechi, slovacchi. E se stiamo parlando degli influssi i italiani ci sia permesso di menzionare che l’Estetica di Benedetto Croce costituì una delle letture preferite per lui. II Poeta citava spesso il filosofo, discuteva con lui, era d’accordo con Croce e lo confutava: ad ogni modo Benedetto Croce divenne parte del suo sviluppo spirituale. E dopo uno spettacolo confuso-scandaloso a Parigi conobbe anche Mari-netti e Prampolini e commentò le loro opere con scarsa approvazione… Del resto, il suo soggiorno a Parigi gli diede occasione di conoscere il surrealismo; una piccola rivista, l’Esprit Nouveau (allora non più l’organo combattivo di Le Corbusier e di Ozenfant) pubblica le sue poesie francesi. E nello stesso tempo conosce più profondamente le opere di Lenin…
Le tracce delle tendenze d’avanguardia si vedono sempre nella sua opera: egli le sorpassava per inserire le loro conquiste nella propria lirica; le fece cessare adoperandole. Sorprendenti congiunzioni di immagini, che però già molto prima si vedono nella sua lirica e evidentemente coincidono con le sue tendenze più profonde, certe caratteristiche della tecnica della costruzione, la tendenza per il grottesco, certi colori e locuzioni: ecco quello che egli eredito da questa grande corrente della poesia europea.
Un fenomeno interessante: negli stessi anni nei quali egli scrisse le sue poesie nate sotto l’influsso espressionista e costruttivista, scrive delle poesie – accanto a quelle altre e insieme con esse – sul modello delle canzoni e ballate popolari ungheresi. E qui dobbiamo fermarci: la vera scoperta della musica e della poesia popolari ungheresi, la rottura con la musica troppo ornata ed alla zingaresca, la scoperta della vera e genuina canzone contadinesca, del puro, armonico e drammatico materiale di melodia e di testo, tutto questo è una grande conquista della cultura ungherese al principio del secolo ventesimo. Questo processo, questa scoperta s’iniziano in parecchi territori spirituali, i maggiori fatti si legano ai nomi dei grandi compositori di Béla Bartók e di Zoltán Kodály. Entrambi penetravano nel piú profondo per portare alle più grandi altezze quello che avevano trovato: e Bela Bartók, amalgamando ciò che era profondamente popolare e genuino col più modernamente europeo, il semplice col complesso sviluppo la sua arte. La carriera e le iniziative dei due esercitarono il loro effetto sul giovane: egli imparò l’armonia e la semplicità complessa delle canzoni popolari; con questa voce parlo dei lamenti dei contadini, cioè dei più umiliati, dei più poveri; ma ugualmente con la voce della « gente povera » parla anche della propria sorte difficile, delle sue delusioni d’amore, del suo essere escluso.
Questi due elementi, la poesia europea del ‘900, la sua lirica moderna, complessa, eccitata, e la purezza delle canzoni popolari si congiungono in unità armonica nella sua poesia, e quando il Poeta giunge alla fine dei suoi anni di scuola, le due correnti non fluiscono più una accanto all’altra, ma in unità organica nello stesso poema.
Alla svolta decisiva della sua poesia e della sua vita József si trova di fronte a una parte caratteristica, e negli anni del ’30 molto in voga, della poesia operaia europea: alla poesia politica, di carattere d’agitazione, scritta per cori di recitazione. Alcuni elementi di questa poesia egli assume nella sua lirica: lo slancio rivoluzionario, il pathos, la marcia diretta verso lo scopo, benché la sua lirica sorpassi di gran lunga questa lirica, del resto benemerita. József è un poeta politico al cento per cento, il che vuol dire che talvolta gli avvenimenti della politica quotidiana gli danno ispirazione (non poche grandi poesie dedico alla guerra civile spagnola), ma egli ha sempre da van ti a sé tutto l’orizzonte e pensa ai problemi di tutta la nazione, di tutta l’umanità. Non semplifica mai: egli crede di servire meglio la causa della rivoluzione e della classe operaia partendo dal vedere chiaramente la realtà data. Egli imparava non mezzi poetici, ma atteggiamenti, modi di vedere. umanismo combattivo, presa di posizione antifascista (anche se in molto li superava) dai rappresentanti dell’umanismo europeo, quali erano Thomas Mann, Karel Capek, Béla Bartók.
Potremmo terminare questa rassegna delle influenze derivanti dalla lirica europea. Dobbiamo ricordare in questa connessione, brevemente, ancora la significativa attività di traduttore del poeta. S’intende, nell’opera di un traduttore letterario c’è molto di accidentale, vi possono avere una certa parte ordinazioni di editori o simpatie personali: tuttavia essa indica pure la direzione dell’interessamento. Attila József ha tradotto molte opere di poeti francesi (tutta una serie di poesie di Villon, alcune poesie di Verhaeren e di Rimbaud), di tedeschi, alcuni versi di Majakovskij e di Blok, ma il più della sua attività nel campo della traduzione artistica riguarda la poesia moderna dei popoli dell’Europa orientale, vicini agli ungheresi, e cioè dei cechi e dei rumeni. C’era in ciò influenza di amici, c’era anche un intento politico determinato (presa di posizione contro la propaganda sciovinista che aizzava i piccoli popoli dell’Europa orientale gli uni contro gli altri) e c’era anche un profondo sentimento dell’affinità delle letterature sviluppate in analoghe circostanze letterarie e sociali. Così non è un caso che molto frequentemente e con la massima forza rievocatrice, interpretasse il poeta rivoluzionario, dei cechi, precocemente scomparso e per lui tanto caratteristico, Jir̂i Wolker.
Tutti questi impulsi, tutte queste tendenze contribuiscono alla formazione della sua poesia indimenticabilmente e assolutamente originale.
Cerchiamo di riassumere alcune particolarità di questa lirica matura. La caratterizzano anzitutto una profonda conoscenza della situazione e una specie di realismo fondamentale. L’incondizionata fedeltà e attaccamento alla realtà, l’osservazione dei motivi più caratteristici e talvolta minuscoli del paesaggio, degli uomini, dei gruppi, il continuo bisogno di contrapporre le proprie immagini alla realtà, anche se quest’ultima è dura e provoca disinganno. Un solo esempio: Attila József rompe con certe generalità della lirica del movimento operaio, con la rappresentazione generica e stilizzata degli operai. Ci parla anche qui un poeta che non abbellisce in nessun modo le sorti umane, neanche rievocando la propria classe, un poeta che vede anche qui l’abbandono ed i contrasti. Questo rispetto devoto per la realtà è una delle particolarità più caratteristiche della sua poesia.
Ma egli non si ferma qui: interpreta, organizza, e riassume in un sistema d’idee unitario, in una concezione intellettuale unica, gli elementi dispersi della realtà. Realtà e pensiero filosofico, piccoli fatti e concezioni ampie, osservazione acuta e unità della visione della realtà, armonia inerente a tutte le minute parti del verso ed anche alla sua struttura intera, rendono il poeta eccezionalmente grande. E’ un poeta intellettuale caratteristico, ma in modo speciale. Le sue parole predilette sono « ordine », « ragione », « sapere », e con queste parole chiave intende esprimere quell’armonia più alta, in cui si innesta l’uomo scevro dall’oppressione economico-sociale (dopo aver ordinato anche i suoi istinti e la sua vita spirituale). Giova aggiungere che quell’intellettualismo fondamentale di Attila József si appoggia al marxismo: dagli insegnamenti, dalla visione del mondo, e della società del marxismo sono permeate tutte le sue opere. L’attaccamento all’intelletto puro, al pensiero, tanto nei temi che nella forma, sono mezzi per frenare le ferventi passioni interne del poeta, ma nello stesso tempo naturalmente anche mezzi per resistere alla barbarie del fascismo. Da quel che siamo venuti esponendo sembrerebbe che Attila József coltivasse un’arida e pesante lirica intellettuale, o fosse un realista terra a terra. Ma non è così: non solo perché i problemi
***
Metti la mano
Metti la mano
sulla mia fronte
come se fosse
mia la tua mano
Fammi la guardia
come chi uccide,
come se fosse
tua la mia vita.
Amami,
come se fosse bene,
come il mio cuore
fosse il tuo cuore.
Tedd a kezed
Tedd a kezed
homlokomra
mintha kezed
kezem volna
Úgy őrizz, mint
ki gyilkolna,
mintha éltem
élted volna.
Úgy szeress, mint
ha jó volna,
mintha szívem
szíved volna.
**
Attimo
Cantan stormi di uccelli,
il bosco ne risuona:
scappa al fiume un bambino
di contadini, sporco.
Splende caldo anche il sole
e l’aria si arroventa;
neanche un’esile nube
si può vedere in cielo.
Il bambino si scalda,
si stende sulla riva,
sulla rena si rotola.
Scaglia un sasso ben piatto
che rimbalzi sul fiume,
e se ne va fischiando.
Perc
Dalol a madársereg,
hogy az erdő zeng belé,
maszatos parasztgyerek
inal a folyó felé.
A nap is süt melegen,
tüesíti a leget,
nem is làtni az egen
pici keskeny felleget.
A parasztgyerek hevül,
a folyópaton ledul,
homokon gurul tovább,
kavicsot fog, jó lapost,
a folyóba dobja most
s fütürészve áll odább.
**
Salmo silenzioso di sera
O mio Signore, non martellare in rime la tua gloria.
Con labbra semplici dico il mio salmo.
Ma se non vuoi, non ascoltare la mia parola.
So che l’erba è verde, ma non capisco perché è verde,
per chi è verde.
Capisco che amo,
ma non so quale bocca brucerà la mia.
Sento che soffia il vento; non so perché soffia
quando io sono triste.
Ma non prestar attenzione alla mia parola se non ti piace.
Vorrei semplicemente dirti con parole piane, primitive,
che esito anch’io, che sono qui, che ti ammiro;
ma che non ti capisco.
Perché non hai bisogno della nostra ammirazione,
del nostro salmodiare;
perché urtano forse il tuo orecchio rumorose, continue suppliche.
Perché non sappiamo altro che implorare,
umiliarci, chiedere.
Sono un tuo schiavo semplice, che puoi dare in regalo
anche all’inferno.
Il tuo dominio è infinito,
e sei potente, forte, eterno.
O Signore mio, dammi una briciola di me stesso.
Ma se non vuoi, non ascoltare la mia parola.
Csöndes estéli zsoltár
Ó, Uram, nem birom rímbe kovácsolni dicsőségedet.
Egyszeerű ajakkal mondom zsoltáromat.
De ha nem akarod, ne hallgasd meg szavam.
Tudom, hogy zöldel a fű, de nem értem minek zöldel, meg kinek zöldel.
Érzem, hogy szeretek, de nem tudom, kinek a száját
fogja megégetni a szám.
Hallom, hogy fú a szél, de nem tudom, minek fú,
mikor én szomurú vagyok.
De ne figyelmezz szavamra, ha nem tetsik Neked.
Csak egyszerűen, primitíven szeretném most Neked
elmondani, hogy én is vagyok és itt vagyok és csodállak,
de nem értelek.
Mert Neked nincs szükséged a mi csudádásunkra,
meg zsolfárolásunkra.
Mert sértik füledet talán a zajos és örökos könyörgések.
Mert mást se tudunk, könyörögni, meg alázkodni, meg kerni.
Egyszerű rabsolgád vagyok, akit odaajándékozhatsz a Pokolnak is.
Határtalan a birodalmad és hatalmas vagy meg erős,
meg örok.
Ó Uram, ajándékozz meg csekélyke magammalengem.
De ha nem akarod, ne hallgasd meg szavam.
**
Sulle rotaie un ubriaco…
Sulle rotaie un ubriaco giace.
nella mano sinistra ha un fiasco. Russa:
dorme un sonno beato. Ormai la notte
si allontana trottando sulla strada.
Dolce il vento notturno gli ha adornato
di festuche, di polvere i capelli.
versa divine gocce di rugiada
il cielo gli è immoto. Ansima il petto.
Come le traversine ha duro il pugno.
dorme quasi sul seno della madre.
ha rotte le vesti: è giovane. Si è fatto
il cielo grigio: non è sorto il sole.
Sulle rotaie un ubriaco giace.
Trema la terra, adagio, da lontano.
Részeg a síneken
Eyg részeg ember fekszik a síneken
a balkezében tartja a butykosát
és hortyog. Alszik hajnali hívesen.
Az Éj az úton most üget el tovább.
Kuszált haját már ékesítette sok
giz-gaz-szeméttel lágyan az éji szél,
most hint az Ég rá isteni harmatot
s meg nem mozog, csak melle zihál, hisz él.
Jobb ökle, mint a talpfa, olyan kemény,
úgy alszik mint rég anyja meleg ölén.
Ruhája rongyos. Még fiatal; legény.
A Nap se kél, az ég hamuszínre tört.
Egy részeg en1ber fekszik a síneken
és messziről, lassan, dübörög a föld.
**
Amara invocazione di una decisione
Vieni Signore Iddio, guarda, sono qui,
e so che dinanzi a te non impallidisco.
Quello che mi hai dato, riprendilo – l’ho serbato intatto!;
perché mi sono ingannato solo sul tuo nome.
Sei tanto forte tu, pensi per un instante e la cosa è compiuta;
ma per me è molto penosa l’incertezza.
O forse non mi hai dato nulla, ed ero io, folle, a credere
Che traboccasse sulle mie labbra il mosto dell’uva della vita.
Non risentirti con me, Signore; non ho fede,
ma sulle mie spalle porto centinaia di dubbi.
Amami molto, e sai bene come,
come il sole ama la neve che assorbe in sé.
Oppure battimi a morte, ma abbi cura di me,
e io non domando se mi attende la grazia.
Ti do anche il mio sangue, se me lo chiedi
– com’è strano, tu non hai neppure sangue!
Tu mi conosci, conosci anche il mio destino:
riprendi la moneta che mi hai dato.
Perché foggiasti in me l’uomo
Che la tua saggezza punì facendolo vile?
So bene che non impallidisco dinanzi a te:
vieni Signore Iddio, guardami, sono qui.
Keserű nekifoháskzkodás
Gyere Úristen, nézd meg, itt vagyok —
tudom előtted el nem sáppadok.
Azt, amit adtál -megvan épen — vedd el!
‘sz csak hitegettem magam a Neveddel.
Te oly erős vagy -gondolsz egyet s van, de nékem kínos a bizonytalan.
Vagy nem is adtál -én véltem bolondul hogy számon élet-szőllő mustja ‘Csordul.
Ne haragudj hát, Isten, nem hiszek,
de nyakamban szák kétséget viszek.
Szeres, nagyon, hogyan, tutod Te jól azt,
mint Nap havat, amit magába olvaszt.
Vagy üss agyon hát, csak törődj velem
s én nem kérdem, hogy nincs:e kegyelem.
Odaadom a vérem is, ha kéred,
-mily furcsa az, hogy Néked nincs is véred!
Te jól tudsz engem, sorsom is tudod,
de vedd el tőlem a talentumod.
Vagy mért faragtál énbelőlem Embert,
kit Bölcsegéd gyávasággal megvert!
Tudom előtted el nem sáppadok —
gyere úristen, nézz meg -itt vagyok!
**
Giovani vite in cammino
Servire come gleba, perchè noi
avessimo del pane da mangiare;
con tetro umore, ma con testardaggine
lavorarono i padri: era lontano,
assente Dio. Siamo cresciuti adesso
noi che ignoriamo l’esistenza lieta;
con fede ferrea, con giusto coraggio
vogliamo che la sorte cambi. È vero
che fummo vili insieme ai nostri padri;
non ne avevamo diritto: soltanto
avevamo ragione. Ora nessuno —
o lo travolgeremo — può arrestarci
sulla via della Vita. Siamo i figli
della vita, gli atleti della lotta.
E ci mettiamo in moto. E il vecchio mondo
Verrà schiacciato sotto i nostri piedi.
Fiatal életek indulója
Apáink mindig robotoltak,
hogy lenne enni kévés kenyerünk,
bús kedvvel, daccal, de dologban voltak,
az isten se törődött velünk.
De fölnőttünk már valahára,
kik nem tudjuk, mi az vígan élni,
és mostan vashittel, jó bátorsággal
sorsunk akarjuk fölcserélni.
Tudjuk, apánkkal gyávák voltunk,
nem volt jogunk se, csak igazsagunk.
Most nincs, ki megállat az élet-úton de,
ha akad, nyakára hágunk.
Mi vagyunk az Élet fiai,
a küzdelemre fölkent daliák,
megmo dulunk, heih, összeroppan akkor
alattunk ez a régi világ!
**
Il dolore
Il dolore è un postino grigio, muto,
col viso scarno, gli occhi azzurro-chiari;
gli pende giù dalle fragili spalle
la borsa, scuro e logoro ha il vestito.
Dentro al suo petto batte un orologio
da pochi soldi; timido egli sguscia
di strada in strada, si stringe alle mura
delle case, sparisce in un portone.
Poi bussa. E ha una lettera per te.
A bánat
A bánat szürke, néma postás,
sovány az arca, szeme kék,
keskeny válláról táska lóg le.
köntöse ócska meg setét.
Mellében olcsó tik-tak lüktet, az uccán félénken suhan,
odasimul a házf alakhoz
és eltünik a kapuban.
Aztán kopogtat. Levelet hoz.
**
Inverno
Accendere bisogna un grande fuoco
Perché la gente si scaldi. Buttarvi
dentro tutta la roba antica, vecchia,
rottami, scorie e ciò che è nuovo, intatto
balocchi da bambino — oh le rincorse
felici! — e, a piene mani, quel che è bello:
ne canterebbe fino al ciel la fiamma,
darebbe ognun la mano a un suo compagno.
Accendere bisogna un grande fuoco
Perché è brina sul bosco e la città…
Strappare le maniglie alle cantine
Gelide, fare un fuoco caldo, ardente.
Bisognerebbe ahimè, far questo fuoco,
perché gli uomini possano sgelarsi.
Tél
Valami nagy-nagy tüzet kéne rakni,
hogy melegednének az emberek.
Ráhányni mindent, ami antik, ócska,
csorbát, töröttet s ami új, meg ép,
gyermekjátékot, — ó boldog fogócska! —
s rászorni szórva mindent, ami szép.
Dalolna forró láng az égig róla
s kezén fogná mindenki földijét.
Valami nagy-nagy tüzet kéne rakni,
hisz zuzmarás a város, a berek,
fagyos kamrák kilincsét fölszaggatni
és rakni, adjon sok-sok meleget.
Azt a tüzet, ó iaj, meg kéne rakni,
hogy fölengednének az emberek!
**
Attesa
Sempre ti attendo. L’erba è rugiadosa.
Anche gli alberi grandi dalle chiome
piene d’orgoglio aspettano. Io sono
rigido e vacillante a volte. È tetra
la notte per chi è solo.
Se tu venissi, si farebbe il prato
Liscio: e silenzio, gran silenzio.
Ma udiremmo una musica notturna
misteriosa; sulle nostre labbra
canterebbero i cuori e lentamente
ci fonderemmo, offerti al rosso ardore
d’un profumato altare,
nell’infinito.
Várlak
Egyre várlak. Harmatos a gyep,
nagy fák is várnak büszke terebéllyel.
Rideg vagyok és reszketek is néha,
egyedül olyan borzongós az éjjel.
Ha jönnél, elsimulna köröttünk a rét
és csend volna, nagy csend,
de hallanánk titokzatos zenét,
a szívünk muzsikálna ajkainkon
és beolvadnánk lassan, pirosan,
illatos oltáron égve
a végtelengségbe.
**
Non ne posso più
Signore, accieca i miei occhi,
dammi le labbra adatte alla preghiera, labbra che ti ricordino
in ginocchio,
un’anima che sappia che puoi fare miracoli,
e una mente molto più stupida della mia.
O, Dio terribile, sei grande, se esisti;
spedisci dunque il mio corpo straziato all’inferno,
estrema mia pena meritata – oh, no, manda un altro
perché, o Signore, io non resisto più.
Manda un altro, la cui calda voce
venga ripetuta da belle madri felici sopra le culle,
e per cui la terra s’accenda di fiaccole giubilanti,
e di cui sia più meschino il ricco carico di quattrini.
Uno che non detesti l’avidità di denaro degli uomini,
e non si preoccupi se tutti i cuori sono sordi,
e non si senta commosso dalle donne e dalla miseria,
uno il cui volto sorrida, non sia arcigno.
O concedimi il cambio, infine, mio Dio,
concedi il cambio a me, alla mia anima tramortita dal denaro,
l’alito rovente dei tuoi tempi torbidi
venga spazzato via dal freddo sospiro della morte.